L’antropologia del cibo in Liguria

L’antropologia del cibo in Liguria

Pochi sanno che i prodotti naturali più antichi della Liguria sono i fichi, le castagne, i funghi e i ceci. Era quello che offriva una natura avara, in un territorio orograficamente impervio, costituito di aridi monti scoscesi e di una breve pianura costiera battuta dal mare e dall’aria salmastra. L’allevamento del bestiame era minimo, insufficiente a nutrire la popolazione residente che integrava i prodotti naturali cui abbiamo prima accennato con un po’ di orticoltura e una produzione limitata di granaglie minori quali l’orzo, il miglio e la segale. Del tutto assente il frumento. In un celebre passaggio del racconto della guerra dei Romani contro Giugurta, lo storico Sallustio ci racconta che i liguri si nutrivano volentieri di lumache.

Considerata la assoluta mancanza di tecnologie e tenuto presente che il mare (profondo) era percorso da venti forti e da correnti, va ricordato che era quasi assente l’attività di pesca: i Liguri si sono dedicati solo saltuariamente a questa attività e sulle loro tavole il pesce di mare come cibo abituale è stato (salvo le salagioni del pesce azzurro) un “boom” legato al costume delle vacanze a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Fatta questa necessaria premessa, dobbiamo per forza compiere un “salto” nel tempo che ci fa atterrare alla fine del XIII secolo quando scopriamo che, per quel che riguardava i ceti dirigenti ma anche i ceti medi (“populares”), Genova era, in tutti i sensi, una realtà politica e sociale dove il livello di vita era uno dei più alti d’Europa. La civilizzazione e il benessere, poi definiti da alcuni storici “Il volo del Grifo”, s’erano imposti in meno di due secoli a partire dal ventennio che aveva preceduto la Prima Crociata e la costituzione del “Communis Ianuae”. I Genovesi erano stati, nell’Alto Medioevo, bene istruiti dai Bizantini, prima di tutto come marinai guerrieri, viaggiando nel Mediterraneo erano diventati poi marinai mercanti.

La Prima Crociata, nella quale, grazie a Guglielmo Embriaco, i Genovesi erano stati i “trasportatori” (ben pagati) delle truppe del Nord Europa e della Francia di Goffredo di Buglione, avevano aperto (meglio riaperto) le rotte di nuovi e ricchi mercati. Il porto di Genova era diventato un emporio dove arrivavano e partivano merci che oggi definiremmo “di alto valore aggiunto”, ovvero che costavano poco ed erano rivendute a prezzi rialzati, creando automaticamente banca e finanza. A Genova, per prima in Europa (e poi a Firenze e a Venezia), verso la metà del XIII secolo, venne coniata la moneta d’oro, il “genovino”, e vennero “inventati” i sistemi moderni di acquisto e di credito più agile, quali le lettere di credito, le fatture “spuntate”, le “compere” e i “luoghi” antenati delle nostre moderne obbligazioni.

Una creatività finanziaria che ha fatto parlare di “neocapitalismo” ante litteram da parte di Fernand Braudel. In questo contesto i Genovesi, signori d’una terra priva di risorse agricole e naturali, inventarono la “cucina di emporio” ovvero quella che era frutto di import-export. Ne formuliamo qualche esempio: i semi oleosi (nocciole, mandorle, pinoli) che servivano per dolci e pietanze salate. Le quagliate d’Oriente diventarono yogurt e “prescinseua”. Trattando con le terre del Sud Italia e dell’Africa settentrionale, i Genovesi divennero monopolisti del frumento, usando il grano duro per fabbricare e commerciare la pasta secca, creando un’autentica e ulteriore crescita della liquidità. Diedero vita a corporazioni di produttori di paste (lasagnari, macharonari, fidelari). Parole come “trenette” e “fidelini” derivano dall’arabo consolidato in Sicilia.

Successivamente i Genovesi divennero monopolisti dello zucchero di canna, conosciuto in Oriente (dalla città di Candi deriva la parola candito) che s’impose subito al posto del più costoso miele. I Genovesi ne ricopersero prima l’isola di Cipro, poi, quando cadde in mano ai Turchi, passarono all’isola di Madera e poi, grazie al rapporto privilegiato con il regno di Portogallo, approdarono in Brasile. Il monopolio dello zucchero è rimasto a Genova sino a una trentina d’anni fa, perché la città era la sede legale delle maggiori multinazionali saccarifere. Il merluzzo seccato (stoccafisso) dei Mari del Nord divenne nei secoli un altro grande commercio, insieme al merluzzo salato, grazie agli “amici” Portoghesi che lo pescavano e trattavano al largo di Terranova. Nel secolo XIX i portuali, leggendo il marchio “Ragnar” sugli imballi di stoccafisso, quello più pregiato, inventarono in dialetto la parola “ragno” per indicarlo.

Altri monopoli sono stati il caffè e il cacao, che crearono tra il XVII e il XIX secolo prodotti di nicchia e di prestigio che ancora oggi hanno un marchio genovese. Il famoso gelato “panera” a base di caffè, inventato nel XIX secolo, deriva dall’espressione “panna nera”. Sempre giocando sulla cultura dell’emporio va ricordato il fitto commercio con il Piemonte, terra agricola ricca e confinante, nonché con l’Emilia sull’asse Piacenza-Parma: pollame e vitello (poco amato invece il manzo), frutta e vino, oltre che i formaggi, che però erano acquistati anche in Olanda sin dal XVII secolo. In Liguria ebbero un grande successo da sempre il parmigiano e lo stracchino che poi divenne la base per la famosa focaccia di Recco. La produzione di vino e olio, più intensa nelle due Riviere, nel corso dei secoli ha avuto vicende alternate. L’olio è frutto della coltivazione intensiva dei monaci benedettini di Taggia (da cui l’oliva taggiasca), ma il salto di qualità venne nel XVIII secolo in seguito a una malattia delle piante in Provenza e all’invenzione di tecniche di spremitura nel Ponente ligure. Il vino ha avuto alcune aree limitate di grande prestigio (le Cinqueterre e la zona di Dolceacqua), ma è nettamente migliorato nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Nel XIX secolo decolla, a tutti i livelli, il consumo di pesce, ma soprattutto, per un mistero che ancora nessuno ha svelato, è nato il pesto, oggi salsa internazionale. È l’aggiunta del basilico a salse preesistenti, forse quella di noci o l’agliata, già diffuse nel Medioevo. Oggi il pesto pareggia con il suo verde aggressivo il rosso della “pommarola” (anche lei ottocentesca) su tutte le tavole del mondo.

Paolo Lingua, L’antropologia del cibo in Liguria, Genova Impresa, Luglio/Agosto 2017

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